sabato 2 giugno 2001

   


 Commenti
 Primo piano
     
   CRONACHE
   Trento
   Lavis Rotaliana
   Rovereto  Vallagarina
   Riva Arco
   Pergine
   Valsugana  Primiero
   Val di Fiemme
 Val di Fassa
   Val Giudicarie
 Val Rendena
   Val di Non
 Val di Sole
     
   SPORT
     
   SOCIETA'
   Economia
   Lettere
   Cultura
   Spettacoli
   Agenda
     
   SETTIMANALI
   Agricoltura
   Arte & mostre
   Auto & motori
   Bambini
 
& ragazzi
   Internet
   Libri & idee
   Montagna
 
& natura
   Plata ladins
   Sapori
 
& alimenti
   Scommesse
   Università
 
& ricerca
     
   I NOMI DI OGGI
     


  KwSport
     Cerca la squadra


  Katalogo

 

Cerca sulla rete
In Katalogo
Nel web
 
 
 CULTURA

Giuramento in nero


Trento, confronto sui docenti che dissero no
Storia & fascismo. 1931: Mussolini impone la dichiarazione di fedeltà negli atenei

di Alessandro Dell'Aira


Nel 1931, il fascismo impose ai docenti universitari il giuramento di fedeltà al regime. Il rifiuto dei pochi, fu un bel gesto, un eroismo casuale, una vittoria, una sconfitta? Fu un atto di opposizione, ha commentato Paolo Prodi in apertura dell'incontro "Il giuramento negato. I docenti universitari e i regimi totalitari", organizzato a Trento presso il Centro per gli studi storici italo-germanici, diretto da Giorgio Cracco.

-------------------------------






Prodi ha distinto tre tipi di opposizione: il no al giuramento come consacrazione del potere; il no al sacrificio dell'autonomia e alla sottomissione degli intellettuali e dell'università; il no al fascismo come totalitarismo. Questo tipo di giuramento, ha argomentato Prodi, ha lontane radici nella storia dell'Italia moderna: va inteso come l'ultimo anello di una catena che parte dalla professio fidei imposta da Pio IV alle università subito dopo il concilio di Trento, passando attraverso il giuramento di fedeltà alla Repubblica Cisalpina e allo Stato liberale (alla Sapienza di Roma, quattordici docenti su cinquantasette furono allontanati perché si dissero vincolati alla Chiesa). Indubbiamente, obiettivamente, il giuramento fu un inasprimento dei rapporti tra il fascismo e la vita intellettuale. Un giro di vite contro il diritto alla libertà di manifestare il pensiero. Una restrizione che non ammetteva deroghe: chi non giurava era"libero" di lasciare la cattedra, sicché pochissimi si rifiutarono, in tutto una ventina, dodici dei quali in maniera esplicita, motivando in vario modo. E se per tutti l'insegnamento e la ricerca erano i punti fermi di una vita di studio in condizioni di prestigio e di potere, i dodici decisero di rinunciare a quella vita, o di viverla in altro modo, a volte precario. Non fu un suicidio civile all'acqua di rose, ma un'obiezione di coscienza, che comportò il sacrificio dei privilegi e della stabilità. I dodici sono: Francesco Ruffini (diritto ecclesiastico), Mario Carrara (medicina legale), Lionello Venturi (storia dell'arte), Torino; Edoardo Ruffini, figlio di Francesco (diritto ecclesiastico, Perugia), Piero Martinetti (filosofia), Fabio Luzzatto (diritto agrario), Milano; Bartolo Nigrisoli (clinica chirurgica), Bologna; Giorgio Errera (chimica), Pavia; Ernesto Buonaiuti (storia del cristianesimo), Vito Volterra (matematica), Giorgio Levi della Vida (orientalista), Gaetano De Sanctis (storia antica), Roma. Il tema degli atenei di Trieste e Torino, in rapporto con le rispettive città, è stato tracciato da Anna Maria Vinci e Angelo d'Orsi. Rievocato il conformismo e l'obbedienza rassegnata di un ateneo che da ponte tra le culture divenne un avamposto, a presidio del confine con il mondo slavo. D'Orsi, allievo di Bobbio, piuttosto critico con il maestro, ha ridimensionato il mito dell'antifascismo degli intellettuali torinesi e la pressoché totale freddezza degli ambienti accademici ("Tutto tranquillo", commentò per telefono Solari a Einaudi subito dopo il consiglio di facoltà che trattò del caso Ruffini, "Francesco si è dimesso da solo").

Storia dei dodici irriducibili