domenica 3 giugno 2001

   


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 CULTURA


Immagini. Un fotografo simbolo

Un ciak sul Che

L'icona rivoluzionaria di Korda



di
Alessandro Dell'Aira
 




ALBERTO DÍAZ GUTIÉRREZ detto Korda, settantadue anni, è morto di infarto qualche giorno fa a Parigi. Il famoso ritratto del comandante, con la stella al centro del basco, la chioma folta e lo sguardo che vive, è roba sua. Persona amabile, Korda andava in bestia solo quando lo chiamavano "il paparazzo di Fidel e del Che", e non senza ragione, dato che nessuno al mondo gli ha mai riconosciuto un centesimo dei diritti che gli spettavano per tutti i poster, gli adesivi, le magliette e le copertine della rivoluzione circolanti sul mercato.

Era il 5 marzo del 1960, una nave francese all'Avana era saltata in aria per un sabotaggio. Centotrentasei morti. Alberto Díaz Gutiérrez, titolare di un negozio dell'Avana, battezzato Studio Korda perchè quel nome faceva venire in mente le pellicole Kodak, si accorse di avere il dottor Ernesto Guevara, detto Che, a portata d'obiettivo. Lo inquadrò, prima in verticale, poi in orizzontale, negativi 39 e 40. Dalla seconda inquadratura, un primo piano americano che raramente si è visto come lo vide lui nel mirino della sua macchina, e cioè per intero, è nata l'icona del Sessantotto.


   



L'essenziale è invisibile agli occhi. Alberto Korda amava citare questa frase dal Piccolo Principe di Saint-Exupéry. Quel 5 marzo famoso aveva in mano una Laika e doveva catturare qualche ritratto di personaggi in tribuna per il giornale Revolución. Non era ancora molto conosciuto, Korda. L'anno prima era andato in Venezuela con la delegazione di Fidel, ma niente di speciale. A un certo punto vide Ernesto Guevara alzarsi dal suo posto un po' defilato e venirgli casualmente incontro. Fu colpito dal suo sguardo essenziale. Il dottor Guevara era anche lui un bravo fotografo e sapeva gestire bene il mito della propria immagine. Korda portò le sue foto al giornale, ma nessuno pensò di pubblicare quella. Poi, sul fare dell'estate del 1967, quattro mesi prima che il Che venisse ucciso in Bolivia - questo almeno ha dichiarato l'anno scorso Alberto Korda a un settimanale cubano -, si presentò nel suo studio dell'Avana un editore europeo, un certo Giangiacomo Feltrinelli, italiano, inviatogli da Hayde Santamaría, direttrice della Casa de las Américas. Lo straniero si presentò come un ammiratore del Che, e chiese a Korda se aveva una sua foto da mostrargli. Korda gli indicò quella che aveva scattato sette anni prima. Nessuno l'ha mai vista, gli disse. Feltrinelli ne chiese due copie, disposto a pagarle, ma Korda gliele regalò.

Questa è la storia della fotografia di un comandante con lo sguardo che vive. Una foto essenziale, che fu resa visibile agli occhi del mondo per esorcizzare l'immagine di un corpo inerte dagli occhi di vetro, diffusa dai boliviani. Da Milano, la stessa immagine si diffuse in Europa, in un lampo. Coincidenze? Chissà. Lo stesso Korda ha dichiarato di non saperne parlare. Una scelta politica, ma anche un'operazione commerciale, di cui nessuno, né in patria né fuori, si ricordò di riconoscergli i diritti d'autore. Alberto Korda si paragonava a García Márquez, prigioniero del mito dei Cent'anni di solitudine. Era diventato famoso anche lui, anche se non come García Márquez. La sua fama di fotografo del Che si era diffusa e lo aveva portato a visitare molte capitali mondiali con le sue immagini d'arte, fino all'ultima personale di Parigi. Sempre dietro alle mostre di fotografia e agli incontri pubblici, ma dietro anche a quell'immagine di uomo-simbolo, che aveva rubato al caso e di cui si era casualmente disfatto. Un'immagine mitica, di cui Korda si sentiva un po' prigioniero, e di cui gli era quasi venuto il desiderio impossibile di riappropriarsi, soprattutto quando la ritrovava su oggetti che non gli garbavano come supporti del mito: le bottigliette di profumo, le scatole di fiammiferi, o certe confezioni alimentari poco essenziali, anzi per nulla essenziali e così visibili agli occhi.