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 CULTURA
IN LIBRERIA

Ferdinando Camon
La ristampa del capolavoro
altare di parole per la madre


di Alessandro Dell'Aira

 

  PERCHÉ SCRIVO? PER VENDETTA, dichiarava Camon nel 1985 a un interlocutore francese.
Mia madre era quasi analfabeta, scriveva a stento il suo nome e cognome. Per noi ragazzi la scrittura era uno strumento del potere. Così ho voluto impossessarmene, per farne uno strumento di liberazione. Poco dopo, nel corso del colloquio, Camon definiva la vendetta "una giustizia nevrotica". A quei tempi l'autore, cinquant'anni, figlio di contadini del padovano, aveva appena pubblicato presso Garzanti "Storia di Sirio", che conclude il suo "ciclo del terrore". Gli undici romanzi di Camon sono suddivisi in cicli. Il suo capolavoro, "Un altare per la madre", Premio Strega nel 1978, appartiene al "ciclo degli ultimi" ed è uscito da due mesi in terza edizione. Tra diciannove stesure l'editore ha scelto la terza. Questo dettaglio, quasi un pettegolezzo, la dice lunga su ciò che divide un autore da un editore (forse anche un autore da se stesso) sulle idee controverse di stile, di letteratura e di pubblico.


L'intento dello scrittore è di santificare il ricordo della madre. Di canonizzarla dal basso con un altare di parole perché dall'omaggio del figlio fiorisca l'altare del padre, fatto di pezzi di legno e lamine di rame ricavate da una catasta di paioli, quello di casa anzitutto e poi gli altri donati dai compaesani.
Umile la tecnica, umili i materiali, mirabile il risultato: le cesoie sventrano i paioli, un fuoco di fascine arroventa le lamine che un bacile di urina attinta nella stalla purifica dalle croste.
Le mani del padre maneggiano ceselli ricavati da vecchi chiodi e pezzi di tubo e sotto gli occhi della gente creano e sbalzano spighe, grappoli, offerte votive. Il paiolo dei più poveri, l'unico di casa, non è rifiutato: rientra al focolare mutilato e rabberciato con la striscia di un paiolo non indispensabile. Tutti contribuiscono, l'altare è di tutti. La madre non c'è più, a salvarne la memoria visiva per una serie di circostanze non soccorre neppure l'usato sistema della fotografia rifotografata e ingrandita. Si portano in città le poche stampe rimaste e si sceglie la migliore. Il risultato delude: non si vedono gli occhi.
E allora il padre riscopre un luogo sacro per la famiglia, sul crocevia dove la madre durante la guerra ha salvato un uomo dal nemico. Erige il sacello ma quando ha finito si rende conto che è vuoto. Gli viene l'idea dell'altare e lo realizza, anzi lo fabbrica a ricordo della madre. Un atto di vendetta e di liberazione dalla morte, proiezione del sacro familiare fuori della casa, retablo rustico per la madre perché la madre smetta di morire.
Tecnicamente dolce. Così Moravia giudicò questo romanzo ancorato al "tempo eterno della campagna" (parole di Geno Pampaloni), che regge all'assedio di una scialosa e agra modernità. Anche Pasolini nel 1970 manifestò apprezzamento per la prima opera narrativa di Camon, "Il quinto Stato".
Radici cattoliche, militanza laica, orrore per il massimalismo, propensione al confronto, crisi di identità. Voglia di non defilarsi e di esprimersi come forma di lotta contro la depressione e la prevaricazione. Testimone di una civiltà nevrotica e di un'epoca di conflitti, Camon è uomo di coraggio propenso alle sane provocazioni.
Proviamo a riassumerne la filosofia con un titolo e una frase che gli appartengono: il nostro mondo è una malattia chiamata uomo che va all'analisi come alla guerra. Ed è un solido appiglio questa terza edizione di "Un altare per la madre", per chi crede nella catarsi del leggere come tecnica di resistenza e di sopravvivenza.



Ferdinando Camon
Un altare per la madre
Gli Elefanti, Garzanti 2002
134 pagine, 6,50 euro


 
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