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 CULTURA
AVIO, SULLE TRACCE DI GIOTTO
Sullo splendido affresco della stanza dell'amore le cinque lettere, sigla del pittore
La ricerca. L'ardito bacio tra Guglielmo di Castelbarco e Tomasina ispirato a Cino da Pistoia


 
di Alessandro Dell'Aira    
Mastio del Castello di Avio, affreschi della Camera d'Amore. Sopra: a destra, il ritratto di una Gonzaga,
di Giannino Bahuet, a confronto con la dama della Camera d'Amore.

L'identificazione del motto petrarchesco "Sia che pò", ovvero "Sia quel che sia", sugli scudi dei fanti del castello di Avio, affreschi datati alla metà del Trecento, ha portato ad una lettura interpretativa degli affreschi della Camera d'amore in cima al mastio, che gli esperti datano tra il 1330 e il 1333 ma che potrebbero essere più antichi. Per i lettori del "Trentino" ecco le conclusioni della ricerca che tra breve sarà pubblicata sull'Annuario del liceo Da Vinci di Trento. Ricordiamo che il tema figurativo della Camera d'amore, dalla pianta a forma di scudo, consiste nelle evoluzioni di un Cupido a cavallo che corre sfiorando le tende di ermellino dipinte sulle pareti e scaglia dardi a una coppia di amanti ritratti dove le tende si aprono. Se la scena non è solo allegorica, ritrae Guglielmo, figlio del nobile Azzone di Castelbarco, e madonna Tomasina Gonzaga, sposi a Mantova nell'agosto del 1319, come risulta dall'atto dotale che si è conservato.






 


Camera d'amore. A sinistra. il bacio degli amanti. Sopra: lettere gotiche e grafismi.




Tomasina era figlia di quel Luigi Corradi possidente di Gonzaga che la notte di ferragosto del 1328, con l'aiuto del genero Guglielmo e di Cangrande della Scala, prese Mantova e liquidò il capitano Rainaldo Bonacolsi, detto il Passerino per quanto era minuto di statura e di spirito. Il bello è che tra i testimoni dell'atto c'erano anche dei Bonacolsi.
Tomasina è ritratta con un cagnolino in mano. Già allora i Gonzaga avevano la passione dei cani, perché li allevavano ma anche perché non avendo animali nel blasone si spacciavano per vassalli di Matilde di Canossa, nel cui stemma c'era un cagnolino rampante con un osso in bocca. C'è un cagnolino rampante anche negli affreschi del Palazzo baronale del Castello di Avio, tra la torre e la Casa delle guardie. Nel Cortile dei Cani del Palazzo ducale di Mantova c'è la tomba di Oriana, cagnolina celeste dei Gonzaga. Sempre nel Palazzo ducale di Mantova si conserva un dipinto di Giannino Bahuet, del 1590 circa, interpretato come il ritratto di una Gonzaga (Prisca?) con in mano un cagnolino identico a quello della dama di Avio. Il cagnolino di Mantova ha lo stesso collare a sonagli del cagnolino di Avio, il che autorizza a pensare che l'affresco della Camera d'amore, direttamente o indirettamente, possa essere stata la fonte di Giannino Bahuet. E non è tutto: nel castello di Ambras presso Innsbruck, dove nel 1976 è stata trasferita la galleria di ritratti dell'arciduca Leopoldo Guglielmo dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, sono esposti due ritratti di Eleonora Gonzaga, consorte dell'imperatore Ferdinando II, attribuiti a Justus Sustermans (1615 circa). In entrambi i ritratti Eleonora compare come l'antenata Tomasina: in uno dei due è in abito da sposa e con un cagnolino in mano, nell'altro in abiti regali e con un cagnolino ai piedi. Nel 1333 si incontrano ad Avio il figlio del re Giovanni di Boemia, futuro imperatore Carlo IV, Guglielmo di Castelbarco e Guido Gonzaga, per discutere di nuove signorie. Il leone rampante dei Castelbarco in quegli anni è in gran forma. Oltre che a Mantova, nel 1328 Guglielmo ha avuto le mani in pasta anche a Padova. Molta acqua è destinata a passare sotto i ponti dell'Adige: nella Casa delle guardie non ci sono ancora i fanti nascosti dietro gli scudi con il motto "Sia che pò".
Gli affreschi illustrati sulle pareti del mastio della Camera d'amore, a parte le allegorie della volta e le scene di caccia minori, per quanto di buona fattura non dovettero costare una cifra perché all'80 per cento sono tende e al 20 per cento personaggi. Il cavaliere entra da dietro le tende e senza scendere di sella si precipita a baciare la sua bella guardandola negli occhi. Un bacio ardito, verticale. Ma ecco giungere Cupido, con gli artigli piantati sulla groppa del destriero sfrenato, che gira in tondo sfiorando le tende e fa il tiro al bersaglio con i dardi, centra al cuore Guglielmo che è sceso da cavallo, poi tira a Tomasina, ma lei donna gentile scansa il colpo con la mano mentre il figlio di Venere gira implacabile con un terzo dardo in pugno. E' stato dimostrato che questo Cupido al galoppo sviluppa un'invenzione di Francesco da Barberino, solo che qui Cupido non scherza come nei codici di Francesco da Barberino. Uccide come nei sonetti di Cino da Pistoia innamorato di madonna Selvaggia. Ecco il sonetto di Cino che a nostro parere ha ispirato il maestro della Camera d'amore di Sabbionara:

Cino da Pistoia, Rime, xxxvii

Amore è uno spirito ch'ancide,
che nasce di piacere e vèn per sguardo,
e fere'l cor sì come face un dardo,
che l'altre membra distrugge e conquide;

da le qua' vita e valor divide
non avendo di pietà riguardo,
sì com' mi dice la mente ov'io ardo
e l'anima smarrita che lo vide,

quando s'assicurâr li occhi miei tanto,
che sguardaro una donna ch'i' scontrai,
che mi ferìo'l core in ogni canto.

Or foss'io morto quando la mirai!
ch'io non èi poi se non dolore e pianto,
e certo son che non avrò giammai.


Ma chi è il pittore di questi affreschi, definiti giotteschi da molti critici? Da letterati ci facciamo da parte e lasciamo la parola agli storici dello stile e agli esperti di costituzione materiale delle pitture trecentesche. Può darsi che il pittore del mastio di Sabbionara, tra il 1330 e il 1333, avesse in mano un codice miniato con le teorie d'amore di Francesco da Barberino e le Rime di Cino da Pistoia. In ogni caso, si tratta di un rarissimo ed eccezionale ciclo di pittura profana. Una volta decifrate, le scritte gotiche sbiadite che corrono lungo la Camera d'amore daranno qualche informazione in più. Ne segnaliamo in particolare una, presso la figura di Cupido, che si sviluppa su due linee anziché su tre ed è preceduta da due croci fiorate identiche. Sono cinque lettere, JO FLO. Non è certo che si tratti della firma dell'artista, e in ogni caso la qualità delle pitture non autorizza a dire altro, ma ricordiamo che le opere firmate da Giotto sono tre, con la formula "Opus Jocti Florentini".
Il vecchio Borges aveva ragione. Non si scrive mai niente di nuovo, è già tutto scritto. Nel nostro caso, è già tutto scritto nel castello, nei documenti e nei libri che ne parlano. L'ultimo spunto che segnaliamo, tra quelli finora trascurati, è il "Trecentonovelle" di Franco Sacchetti, che risale agli ultimi due decenni del quattordicesimo secolo.
La novella 61 è dedicata a Guglielmo di Castelbarco signore delle contrade di Trento, e al suo amministratore arricchito Bonifacio da Pontremoli. Bonifacio una volta mangiò maccheroni con il pane alla mensa del suo signore. Erano tempi di carestia; e Guglielmo, furibondo perché il suo "provvisionato" aveva osato tanto, lo chiuse in carcere sotto il mastio del castello e lo liberò dietro cauzione di seimila bolognini.
Quante tracce di Toscana, alla corte dei Castelbarco di Avio.




 
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