DA QUINDICI ANNI Palermo ha riscoperto la figura storica di Benedetto Manasseri da San Fratello, figlio di schiavi subsahariani, nato libero nel 1524 e vissuto da eremita in vari luoghi montani della Sicilia fino al 1562, anno in cui scese controvoglia dal Pellegrino ed entrò per obbedienza nel convento dei frati minori di Santa Maria di Gesù. Benedetto ebbe fama di santo e taumaturgo, fu patrono degli umili e consigliere dei potenti. Non ricevette mai gli ordini monastici e morì da frate laico nella comunità di cui era stato guardiano e riformatore. Fu canonizzato nel 1807. I palermitani lo venerarono in vita come asceta e uomo di Dio, capace di compiere grandi prodigi e guarigioni stupefacenti. Pochi anni dopo la morte, su impulso dell’ordine francescano e di alcuni devoti siciliani influenti presso la corte spagnola, divenne popolare anche nel mondo iberico e iberoamericano. Come “santo della terra” fu associato alla Madonna del Rosario, alla Madonna delle Nevi e alla regina santa Isabella di Coimbra, moglie del re don Dinis, terziaria francescana vissuta nel secolo XIV e canonizzata in San Pietro nel 1625 sotto il nuovo baldacchino del Bernini. Da Cadice a Siviglia a Lisbona, da Rio de Janeiro a Vitoria, nel nome di Benedetto si fondarono confraternite del Rosario finalizzate alla buona morte e al riscatto dalla schiavitù.

   
La regina santa medievale e il “santo schiavo” del Cinquecento costituiscono due simboli forti del nazionalismo lusitano negli anni in cui si prepara l’avvento della casa di Braganza e il ritorno del Portogallo al rango di regno indipendente e sovrano, divenuto realtà nel 1640. Le corone iberiche erano rimaste unite per sessant’anni, da quando nel 1580 Filippo II d’Asburgo aveva assorbito per successione la corona portoghese, coltivando per due anni il progetto di stabilire a Lisbona la sua capitale. La regina di Coimbra e il figlio degli schiavi di San Fratello incarnano i valori della religiosità francescana vissuta laicamente ai due estremi della scala sociale. Il paradiso Isabella se l’era guadagnato sfamando i poveri e consacrando la propria corona al Santissimo Sacramento. I terziari di Coimbra nel 1625 sperarono di associarle in subordine Benedetto il Moro, che ritenevano molto adatto a ricoprire quel ruolo. Ma la sua “via legale alla santità” si fece sempre più aspra per la severità nell’applicazione dei canoni conciliari tridentini e per l’accresciuto controllo papale sui santi patroni canonizzati dal basso. Agevole e piana per Benedetto fu invece la via terrena alla santità nelle terre d’oltremare: con notevole anticipo sulle procedure, se non gli altari gli si garantì almeno una mensola all’interno di una baracca o di una sagrestia, uno stendardo da portare in processione, uno spazio aperto dove suonare i tamburi in suo onore senza disturbare le funzioni. Le manifestazioni di questo culto sono ancora vivissime in Brasile, dove la presenza degli africani deportati era massiccia. Si tratta di pratiche sincretiche con aspetti spettacolari, come le danze o le sfilate militaresche, o di elaborazioni complesse dei primi apporti europei, come la corsa degli asini di Sergipe o l’albero di nave trainato da buoi e issato sul sagrato della chiesa di Serra da Natale a Pasqua con in cima lo stendardo di São Benedito. Nella seconda metà del Seicento, l'andare e venire di portoghesi dediti al commercio di spezie e di schiavi lungo le rotte atlantiche contribuì a creare un intreccio di tradizioni ibride, radicatesi sulle coste d’America e d’Europa, che in parte anche minima, come nel caso della Galizia, conservano accenti esotici, superstiziosi e "pagani".

   
Il culto popolare per il frate nero di San Fratello convive in Galizia con quello per l’abate bianco San Benedetto da Norcia e sopravvive in almeno quattro centri rurali ai margini degli itinerari che conducono al santuario di Compostela. La presenza del Moro non intacca né contraddice la fama di “Matamoros” del santo apostolo Santiago, sterminatore degli infedeli sui campi di battaglia. Tanto più ci interessano quei luoghi, in quanto sappiamo che la regina santa Isabella, rimasta vedova, si recò da Coimbra a Santiago e vi giunse nel luglio del 1325 in abito da pellegrina. Alcune statue del santo nero sono ancora al loro posto su quei percorsi di devozione, come a Torres Vedras e a Ponte de Lima. C’è un’immagine di San Benito de Palermo a Santiago, nell’ultima cappella della navata di sinistra della chiesa di San Francesco. Ce n’è un’altra meno pregevole nella chiesa di San Francesco a Pontevedra. Entrambe sono oggetto di culto canonico e l’origine siciliana del santo è di pubblico dominio. Nei luoghi di cui parleremo, invece, si celebrano feste e pellegrinaggi rurali. I fedeli giungono anche da lontano, attratti dalla fama del santo nero avvocato delle anime del purgatorio, guaritore dei mali della pelle e della mente. Il suo nome in lingua gallega, Bieito, equivale al Benito degli spagnoli e al Benedito o Bento dei portoghesi.

         
Una di queste feste si celebra il martedì dopo Pasqua intorno alla chiesa di Santa Cristina de Cobas nella provincia di Pontevedra, a pochi chilometri dal monastero cistercense di Armenteira che appartiene alla diocesi di Santiago de Compostela. Nel tempio si conserva una statua di San Benito della seconda metà del secolo XVII, collocata su una mezza colonna munita di capitello e addossata alla parete di destra, di fronte l’altare della Madonna del Carmine. La statua di legno è coperta da un mantello di stoffa, ha un crocifisso nella destra e regge un teschio sul palmo della sinistra, da cui pendono alcuni nastri usati per appendere ed esibire le banconote offerte dai devoti in visita. Sull’altare a fianco della colonna è poggiata una cassetta per la raccolta degli oboli per San Benito. Sull’altare di fronte ce n’è un’altra della stessa forma e dimensioni ma molto più antica e preziosa, coeva della statua, divisa in due scomparti e ornata di un piccolo rilievo policromo con a sinistra tre Anime purganti tra le fiamme e a destra una replica della statua del santo nero. I due scomparti servono a separare gli oboli per le Anime purganti da quelli per San Benito. A detta della gente del luogo, è tale il concorso di folla nel giorno della festa che il sagrato si riempie di gente fino a sera. Sulla facciata della canonica a fianco della chiesa un’iscrizione ricorda che Santa Cristina fu riedificata nel 1667 da Benito Antonio Fernández y Malvar, un personaggio di certo influente. Al centro di un vigneto vicino, tra la canonica e un hórreo — il magazzino-granaio su pilastri tipico della Galizia — sorge un'antica costruzione di circa sei metri per otto, orientata come la chiesa e coperta da un tetto a doppio spiovente, cui si accede da una porta che si apre sul lato lungo prospiciente l’hórreo.

         
Sull’architrave di pietra della porta, rimuovendo uno spesso manto di edera, abbiamo letto l’iscrizione latina SANCTVVM CONSERBATIONE, coeva dell’iscrizione in lingua spagnola sulla facciata della canonica, celebrativa della ristrutturazione del 1667. All’interno del locale, oggi adibito a stalla, sul lato lungo orientato alla chiesa e in corrispondenza della porta di ingresso sporgono tra i conci squadrati due pietre aggettanti con la probabile funzione originaria di mensole. Riteniamo che il culto per San Benito sia stato introdotto a Cobas dallo stesso Benito Antonio Fernández y Malvar, che dovette chiedere e ottenere il permesso di appoggiarlo alla chiesa ristrutturata di Santa Cristina; e che nella costruzione attigua alla chiesa, tra la canonica e l’hórreo, sia stata custodita e proposta alla venerazione popolare la statua di San Benito con il teschio, patrono delle Anime del purgatorio, forse insieme con la statua di “Santo” Antonio nero, un altro africano subsahariano, "negro come quelli della Guinea", vissuto in Sicilia da schiavo guardiano di mandrie e poi da eremita. Antonio morì a Noto nel 1549 quando ancora era consentito praticare il romitaggio nel nome di San Francesco. È probabile che a Cobas, dopo la notizia della beatificazione, almeno la statua di San Benito sia stata ammessa in chiesa ma non su un altare. In Portogallo e in Brasile, Antonio di Noto era spesso associato a Benedetto il Moro. Secondo la tradizione, Antonio apparve a Benedetto morente nel convento palermitano di Santa Maria di Gesù. Le vite di entrambi furono incluse nella cronaca francescana di padre Antonio Daza, pubblicata a Valladolid nel 1611. Antonio e Benedetto, con Elesbão e Ifigênia, fanno parte della “famiglia della Madonna del Rosario dei neri”, tuttora venerata in Brasile, e in Portogallo nella Igreja da Graça della Alfama a Lisbona e nella cattedrale di Braga. Nella cappella reale di Amoreiras a Lisbona, inglobata nell’acquedotto di Aguas Livres, ai tempi del re Giuseppe I e del suo primo ministro marchese di Pombal, le statue dei santi neri Antonio e Benedito erano oggetto di un culto speciale, come a Viana do Castelo fin dal 1634. Benito Antonio Fernández y Malvar, forse devoto di entrambi i “santi neri” di cui portava il nome, volle incrementare la rilevanza sacrale del territorio di Armenteira. Le ragioni della sua iniziativa non sono note ma potrebbero non discostarsi da quelle che nel 1756 indussero Francisco de Souza Pereira, un negriero portoghese, a dedicare un ex voto a Nossa Senhora do Castelo, venerata in una chiesa di Rio de Janeiro, allora sede di una confraternita del Rosario e di São Benedito e oggi cattedrale della città: i centosettanta schiavi che Francisco de Souza stava trasferendo via mare da Pernambuco a Rio avevano rinunciato ad ammutinarsi. L’ex voto del capitano oggi si conserva a Braga in Portogallo nel Museu dos Biscainhos ed è una delle prove materiali di questa devozione “di ritorno”.

 

Alessandro Dell'Aira, Il moro sul Camino de Santiago (1)