+
  23


Sabato 12 giugno 1999


Alessandro Dell'Aira

IL VERO VOLTO
DI SAN BENEDETTO
IL MORO

La Palermo sconosciuta








Pietro Novelli. San Francesco consegna il cordiglio a re Luigi IX di Francia.




IL 10 DICEMBRE 1998, in coincidenza con il cinquantenario dei Diritti dell'Uomo e con la festa della Madonna di Loreto (nera come quelle di Tindari e Czestochowa), s'è aperto a Palermo il secondo Convegno su San Benedetto il Moro. L'ex pastore di San Fratello, nato nel 1524, eremita e poi frate laico dei francescani riformati, è il primo nero ad essere stato ammesso in paradiso, con un ritardo secolare di cui si stanno indagando le circostanze. Sicché l'antonomasia «santo nero», nata subito dalla devozione spontanea alimentata dalle agiografie di parte, esprime un sentimento corale, partecipato. Alla canonizzazione dal basso la Chiesa rispose solo nel 1807, a seguito anche delle restrizioni procedurali introdotte nella prima metà del Seicento.
Gli studi scientifici sulla nerezza vista dai bianchi sono agli esordi. Hanno per nemici il paternalismo, il cosiddetto buonismo, l'autocompiacimento per una tolleranza esibita a prova dell'assenza di pregiudizio, e soprattutto il convincimento che la discriminazione, in certi luoghi a differenza che in altri, non è mai esistita. È il destino di San Benedetto il Moro, caduto in oblio come patrono minore di Palermo, mentre a San Fratello e a Santa Maria di Gesù la sua fortuna si è mantenuta costante in quanto valore locale incontrastato. Sarebbe semplicistico, più che tendenzioso, spiegarne la rimozione dalla memoria collettiva come una sorta di eclissi dovuta all'astro di Santa Rosalia e al suo fascino. Il ragionamento va ribaltato. Proviamo a chiederci, ad esempio, quante volte nel corso di quattro secoli sarebbe stata messa in scena a Palermo un'ipotetica commedia del Siglo de Oro dedicata alla Santuzza. Il fatto è che di commedie sul santo nero di Palermo gli autori spagnoli del Seicento ne scrissero più d'una, e che, nonostante l'osmosi tra Spagna e Sicilia, nessuno mai si è curato di «importarle» dalla Spagna o di darne notizia in loco, se non ora che i tempi richiedono altre valutazioni storiche. Si pensi al canonico palermitano di origine spagnola Pietro Mataplanes, studioso di Santa Rosalia e di fra Benedetto (di cui pubblicò una Vita a Madrid nel 1702 attingendo alla Cronaca del Tognoletto), che pure era informato dell'esistenza di quel ciclo teatrale, visto che ebbe modo di condannarlo. Può così capitare, dopo due convegni e varie performance sul santo nero riscoperto, di dover prendere atto che Palermo possiede una grande tela di Pietro Novelli, rimasta fuori dell'occhio dei riflettori, in cui fra Benedetto è ritratto con le sue vere sembianze. Ce l'hanno segnalata Alfredo e Benedetto Iraci di San Fratello, cultori e custodi della memoria di tutto ciò che riguarda il patrono del loro paese. Il dipinto è riprodotto nella monografia di Guido Di Stefano dedicata al Novelli e pubblicata nel 1989 con prefazione di Giulio Carlo Argan.
Si tratta di un olio di 428 x 261 centimetri, custodito a Santa Maria di Monte Oliveto o della Badia Nuova in via dell'Incoronazione. La chiesa, progettata da Mariano Smiriglio, architetto del Senato cittadino, fu iniziata nel 1620 e ultimata nel 1623, un anno prima della grande epidemia di peste. Era annessa all'ex monastero delle Clarisse, fondato nel 1512 in un'area monumentale normanna alle spalle della Cattedrale, oggi occupata dal Seminario arcivescovile. Nel 1634 il Novelli iniziò a decorare la volta della navata con il tema dell'Ascensione di Cristo, e le pareti con le storie dei santi francescani, come gli era stato chiesto di fare quattro anni prima a San Francesco d'Assisi. Al 1635 risale invece questo dipinto, che raffigura il fondatore dell'Ordine mentre consegna, con l'aiuto del papa, il cordiglio al re Luigi IX di Francia in procinto di partire per la crociata.
Tralasciamo ogni aspetto dei rapporti fra Novelli e Van Dyck, il quale forse inserì il frate nella penombra, alle spalle di San Domenico, nella Madonna del Rosario e le patrone di Palermo dell'Oratorio di Via Bambinai (1624-1628), raffigurandolo come «perdente» rispetto alla romita Rosalia, in ginocchio al centro della tela. Lo abbiamo già scritto nell'Introduzione alla nostra versione (Palumbo, 1995) della commedia di Lope El santo negro Rosambuco de la ciudad de Palermo, data alle stampe a Barcellona nel 1612. Qui invece Benedetto divide con il re santo il posto d'onore davanti all'altare. Perché? Nel 1625 in Portogallo, durante una processione spettacolare, il «santo nero», con il titolo «de Palermo» come nella commedia di Lope, fu associato alla regina Isabella di Coimbra canonizzata a Roma qualche mese prima. Lo riferisce una relazione dell'epoca. Emerge dunque più volte nell'arco di dieci anni (1625-1635), in contesti distinti ma secondo un disegno unico, la determinazione francescana di promuovere le sorti di un «santo servitore» di santi di stirpe regale. La schiavitù era un istituto ordinario, sicché la tesi era originale e a suo modo innovativa nel contesto controriformistico: si intendeva proiettare in paradiso una realtà terrena e garantire un patrono ai neri deportati. Il Benedetto del Novelli regge una torcia accesa di cera bianca di due rotoli, ed è utile ricordare che nel 1652 il Senato palermitano deliberò di offrirgliene tutti gli anni quattro dello stesso tipo. Inginocchiato, s'inchina al re più che al santo fondatore e compare con la sua «vera effigie», come ebbe a notare nel 1827 Lazzaro di Giovanni. Le sue fattezze sono invece alterate nel ritratto che la tradizione attribuisce alla nipote, in realtà settecentesco, in cui ricorrono i simboli del Santissimo Sacramento e del giglio, equivalenti a santità e purezza. Un ulteriore caso di sbiancamento si scopre confrontando due santini della Biblioteca Nazionale di Lisbona, anch'essi settecenteschi, quasi identici tra loro ad eccezione che nel colore del volto del santo.
Ci interessiamo a San Benedetto il Moro da molto tempo. Sappiamo che i punti di approccio al tema sono molteplici e tutti legittimi. A nostro avviso tuttavia, e a condizione che si usi il metodo comparativo, la via meno rischiosa e a minor tasso di equivocità è quella iconografica. Ce ne è giunta conferma dal caso di questa tela

.


 
 
   
HOME