MARTEDÌ, 10 AGOSTO 2004


Pagina 43 Cultura

 
I due candelabri
dell'imperatore Massimiliano

VOLTERRA, Palazzo VITI. Un Museo tra storia e commercio.




di Alessandro Dell’Aira



VOLTERRA, Palazzo VITI. Uno dei due candelabri
commissionati a Giuseppe Viti da Massimiliano d'Asburgo.

A destra: Giuseppe Viti.
Sotto: Massimiliano d'Asburgo.









 
Massimiliano d’Asburgo, partito da Trieste per il Messico, nel 1867 finì fucilato a Querétaro dalle truppe repubblicane di Benito Juarez. Pagò con la vita la sua ambizione imperiale e chiuse la partita lasciando la moglie Carlotta in gramaglie nel castello di Miramare. Ma chi salda un conto di là ne lascia uno scoperto di qua. E così, per un debito non saldato da Massimiliano, fratello minore di Cecco Beppe, a rimetterci fu un emiro del Nepal. Il quale non era un indiano di rango ma il signor Giuseppe Viti da Volterra, impresario dell’alabastro, fatto emiro da un rajah per meriti commerciali. Prima di imbarcarsi per il Messico, Massimiliano gli aveva ordinato una coppia di candelabri giganteschi. Gli abiti nepalesi del signor Viti e i candelabri mai pagati dall’arciduca sono esposti nel palazzo barocco già dei marchesi Incontri, poi venduto a un’Accademia volterrana e quindi acquistato nel 1850 dall’emiro ad honorem, felicemente rampante.
 


Luchino Visconti, che fiutava gattopardi dovunque, affittò Palazzo Viti per girarvi “Vaghe stelle dell’Orsa”. Oggi la famiglia gestisce in proprio il Museo e il Palazzo, che abita in parte. Sul portone e sotto le statue dello scalone decorato a finto marmo, un avviso per il pubblico: “Il Palazzo è ancora aperto nonostante l’Amministrazione comunale di Volterra”. L’ultimo dei Viti tiene duro e non molla, sa di avere tra le mani un Perù. Frequenta le aste d’antiquariato e rimpingua la collezione. I candelabri rimasti sullo stomaco al suo avo gli hanno insegnato che se un affare è andato male, non è detto che gli altri vadano peggio.

Le avventure di Giuseppe Viti, viaggiatore e mercante volterrano, ricordano quelle degli ambulanti del Tesino, i Daziaro, spintisi a piedi nella Russia degli zar con le stampe dei Remondini nelle cassette di legno e poi titolari di grandi negozi a Pietroburgo, Mosca e Varsavia. Con una differenza, non proprio leggera: il campionario di Viti si gestiva meno facilmente delle stampe bassanesi. Nella sala da pranzo del Palazzo, accanto a due quadri con il tempio del Sole di Cuzco e la piazza principale di Quito, ce n’è un terzo che raffigura Giuseppe Viti mentre valica le Ande con le sue casse di pietre.

Il Museo è interattivo, e non nel senso che oggi intendiamo. Di tanto in tanto chi vi entra ha una folgorazione e svela al proprietario la vera funzione di un pezzo esposto. Per esempio, un turista di passaggio ha chiarito come una calotta di metallo dorato, più sonora di un diapason a passarle un dito sul bordo, sia una copia della ciotola di Buddha, oggetto usato dai monaci tibetani e nepalesi per elemosinare il cibo. Lo stesso è accaduto con il ritratto arcigno di un militare, esposto nel salotto rosso: una signora latinoamericana vi ha riconosciuto il maresciallo Andrés de Santa Cruz, presidente della repubblica di Bolivia dal 1829 al 1839 e fautore della confederazione boliviano-peruviana. Il giorno dopo il signor Viti junior ha rimosso la cornice del quadro e ha scoperto una sontuosa dedica del Santa Cruz, rilasciata al suo antenato in occasione dell’acquisto di preziosi alabastri, pagati con una cambiale. Com’era prevedibile, in Europa nessuno volle accettarla. Il signor Viti non si scompose e alla prima occasione la barattò con una partita di cristalli di Boemia. Meglio perdere che straperdere, sembra commentare il suo ritratto nel salotto rosso. Viti non è abbigliato da emiro del Nepal ma da florido industriale del suo tempo. Una specchiera d’epoca lo divide dal presidente Andrés de Santa Cruz, con par condicio perfetta.

I due candelabri presidiano il salone da ballo di Palazzo Viti. Sugli angoli, per prudenza: piazzati al centro del pavimento di alabastro indurito, lo sfonderebbero. Sono un ibrido tra la visione nostrana dell’arte di Montezuma e i lampadari di vetro di Murano. Giosuè Carducci li avrebbe detti “fatali” come la Novara, la fregata a vela della Österreichische Kriegsmarine su cui l’arciduca lasciò Miramare per sempre. Dentro i loro bulbi diafani, a Città del Messico, i suoi camerieri avrebbero acceso ogni sera le luci a petrolio. Tra i motivi decorativi dello stelo c’è una probabile allusione all’ananas, emblema prediletto da Massimiliano e Carlotta come auspicio di fertilità e opulenza. Un motivo che oggi, a Volterra, sopravvive come il residuo pietrificato di un sogno.