MARTEDÌ, 25 GENNAIO 2005

 
Castelbarco,
la memoria
ritrovata



 


Pagina 48 - Cultura & Società

IL RACCONTO DI FAMIGLIA DI ELISABETTA, MOGLIE DEL CONTE ALESSANDRO
 





 
 
 
 

  di Alessandro Dell’Aira

 


ELISABETTA, autrice-editrice de “I Castelbarco ed il Trentino” (settembre 2004) è del ramo di Loppio. E’ importante precisarlo perché il ceppo è radicato e frondoso come quello di una quercia secolare. Nel primo canto del Purgatorio si loda l’umana probità “che risurge per li rami”, e questo secondo Dante accade di rado. Il sommo poeta ebbe modo di assaggiare il pane dei Castelbarco, visto che dal castello di Lizzana probabilmente gettò l’occhio sulla slavina di Mori, la “ruina” che gli ispirò lo scenario dell’incontro infernale con il Minotauro. E c’è il motto petrarchesco dei Castelbarco di Sabbionara d’Avio, Sia Che Pò, dipinto sugli scudi dei fanti della Casa delle Guardie. La tradizione di famiglia vuole che sia stato tra gli ospiti anche Giovanni Boccaccio quando si recò in Tirolo. E poi, meno nota di quanto non meriti, c’è la novella di Franco Sacchetti che narra di un Guglielmo Castelbarco che ad Avio cacciò da tavola e mise ai ceppi un dipendente ingordo colpevole di aver mangiato maccheroni col pane in tempi di carestia. Non tutti i Castelbarco erano stinchi di santo: un Aldrighetto, otto secoli e mezzo fa, anno più anno meno, tra Arco e Riva diede di lancia al vescovo Aldalpreto, percuotendolo al fianco come aveva fatto la frana con l’Adige a Mori e come risulta dalla scena raffigurata a sbalzo su una lamina del Museo diocesano di Trento; o forse lo colpì con due fendenti, come risulta a monsignor Iginio Rogger per averne trovato chiare tracce sul cranio di Adalpreto.

Elisabetta Ceschi a Santa Croce, biografa del suo casato acquisito, confessa con candore che un ritratto di famiglia dall’interno non è mai oro colato. Ed è vero, ma in questo consiste l’originalità della sua fatica. A modo suo, con umorismo e leggerezza, si dedica alla storia dei Castelbarco inquadrandoli nel territorio trentino, usando i castelli come torri degli scacchi e tracciando una parabola che va dalla preistoria della Vallagarina alla cedraia dell’antico palazzo di Loppio, poi declassata a fabbrica di crauti ma ugualmente accostata da Elisabetta al giardino mitico delle Esperidi. Amaro, non a torto, è il suo giudizio sulla galleria Adige-Garda, che ha ucciso il lago di Loppio, sifone dei laghetti del Baldo e dello Stivo, si è bevuta le fontane e tra esse la “sorgente dei Conti”.

Nel 1952 Elisabetta sposò il conte Alessandro Castelbarco, medaglia d’argento in Grecia, partigiano in Val d’Ossola nelle brigate di Edgardo Sogno e dopo la guerra ufficiale di carriera fino al grado di generale di divisione. Nel suo libro non mancano gli alberi genealogici e i medaglioni degli antenati, oltre a un catalogo dei quattordici castelli dei Castelbarco. Quello che più incuriosisce, nel testo illustrato, sono gli aneddoti dimenticati o ignorati, come quello di Gabriele D’Annunzio invitato a Loppio da Filippo Castelbarco cittadino onorario di Fiume. Il vate planò sul laghetto col suo aereo privato e raggiunse la nuova dimora ricostruita nel 1926 sulle rovine del palazzo, presidio austriaco nella grande guerra e alla fine ridotto a un cumulo di macerie. Ma siccome la memoria non si può bombardare, di quelle glorie gli eredi dei Castelbarco conservano gli scampoli per alimentare la saga e tramandarla di generazione in generazione. A questo patrimonio ha attinto Elisabetta, senza timore di prendere strade che si allontanano da quelle consuete. E ha narrato la storia dei suoi avi, secondo la visione di famiglia.