Mercoledì 11 marzo 2009, p. 44
Cultura & Società
   
Viaggio in Europa
con il pachiderma



Nell'ultimo romanzo di Saramago
il perché molti alberghi in Tirolo
sono dedicati all'elefante

di Alessandro Dell’Aira

L'Hotel Elephant a Bressanone.
Sotto, lo sgabello costruito con le ossa del pachiderma.
 
TRA QUALCHE SETTIMANA, per i Supercoralli di Einaudi, finalmente dovrebbe uscire in traduzione italiana “Il viaggio dell’elefante”, romanzo di José Saramago. Finalmente dovrebbe, perché nelle librerie non c’è ancora ma in rete è già annunciato. Titolo: “Storia dell’elefante”. Chissà perché storia e non viaggio. L’Italia letteraria, a quanto pare, fa molte storie e pochi viaggi. Il pachiderma fu offerto dal re Giovanni III di Portogallo al cugino arciduca Massimiliano d’Austria e a sua moglie Maria di Spagna, figlia di Carlo V, come dono di nozze tardivo. L’animale, che proveniva da Goa ed era stato battezzato Salomone, si mise in viaggio
da Lisbona a Valladolid guidato dal conduttore Subhro, anche lui indiano. Da lì in avanti si unì al seguito degli sposi, che raggiunsero Vienna nel gennaio del 1552 dopo essere passati anche da Trento. Il viaggio era durato qualche mese.

Ecco perché molti alberghi del Tirolo e dell’Austria sono intitolati all’Elefante. Il più famoso è l’Hotel Elephant di Bressanone, le cui vicende sono riassunte in un bel libro di Hans Heiss edito nel 2002 a Bolzano e a Vienna da Folio (“Il percorso dell’Elephant”: il percorso, si intende, è dell’hotel, una via di mezzo tra la storia e il viaggio). L’Elephant di Bressanone si chiamava in origine Herberge am hohen Feld. La sposa vi soggiornò con il corteo per due settimane mentre lo sposo si tratteneva a Trento. Sulla facciata dell’hotel, un affresco dell’epoca raffigura un elefante, il suo conduttore e alcune figure del seguito. Un altro Hotel Elefant è a Salisburgo. Fu lì che Saramago, più di dieci anni fa, apprese la storia bizzarra dell’elefante giramondo e decise di raccontarla alla sua maniera.

In punto di morte. L’opera è un misto di cronaca e di invenzione. La trama e l’intreccio hanno anche una valenza allegorica e si prestano alle divagazioni fantastiche, profonde e solo in apparenza disincantate, tanto care al premio Nobel portoghese. Saramago ha terminato di scrivere il romanzo mentre si riprendeva da una brutta broncopolmonite, che gli aveva fatto perdere dieci chili a ottantasei anni compiuti. Ecco il perché della dedica alla moglie: “A Pilar, che non ha lasciato che io morissi”. In una recente intervista lo scrittore ha dichiarato che sapeva di trovarsi in pericolo di vita, ma che grazie anche a quello che stava scrivendo si sentiva a suo agio e non riusciva a capacitarsi che in punto di morte si possa stare cosi bene.

L'epigrafe. Recita l’epigrafe, tratta dal Libro degli Itinerari: “Sempre arriviamo nel luogo in cui siamo attesi”. Una citazione immaginaria, c’era da aspettarselo. Saramago include il suo pachiderma nella categoria universale dei regali riciclati ai parenti. I regnanti portoghesi non sanno che farsene del bestione e decidono di sbarazzarsene in modo elegante. Da questo banale discorso d’alcova muove l’avventura europea di Salomone e di Subhro, ribattezzati Solimano e Fritz dall’arciduca, per suo capriccio e comodità. Il corteo giunge a Genova via mare e punta su Venezia. L’animale invece si ferma a Padova, dove, convinto dal suo amato conduttore, si inginocchia all’indiana sulla porta della basilica di Sant’Antonio (che com’è noto era portoghese di nascita). La gente grida al miracolo. Subhro-Fritz ricava un bel gruzzolo vendendo come reliquie i peli dell’elefante e crea qualche imbarazzo all’arciduca, nel frattempo rientrato da Venezia.

I piccioni viaggiatori. Ed è a Padova, nella ricostruzione fantastica di Saramago, che inizia la parentesi trentina. La sera stessa due piccioni viaggiatori portano a Trento, città del Concilio, la notizia del miracolo padovano. Un giorno solo invece non basta all’elefante per percorrere le venti leghe di distanza tra le due città (in realtà qualcosina in più, considerando che la lega spagnola era pari a circa cinque chilometri). L’ingresso trionfale avviene due giorni dopo verso mezzogiorno. Al centro della piazza del duomo di San Virgilio (un refuso nell’originale portoghese, al quale forse si è ancora in tempo a rimediare nell’edizione italiana) c’è un elefante di legno fatto di tavole, alto più o meno la metà del vero e di fattura sommaria, con delle finestrelle nel corpo che lo fanno somigliare a un cavallino di Troia. Ma anziché contenere armati in miniatura, l’elefante è stipato di fuochi d’artificio multicolori, pronti per la festa notturna. Concluso lo spettacolo l’armatura di legno viene bruciata, per la felicità dei presenti che corrono a riscaldarsi. Nel frattempo inizia a cadere la neve.

E qui ci fermiamo, per non anticipare altro sulle avventure di Solimano e di Fritz fra Trento e il Brennero. Diciamo solo che non appare molto calzante, anche se in chiave disincantata e paradossale, l’accostamento fra il nome tedesco dello Herberge am hohen Feld, in territorio italiano, e i Fashion Shops introdotti in Algarve dal turismo inglese di massa. Da segnalare subito, invece, che un ricercatore trentino, Paolo Domenico Malvinni, in forza alla Biblioteca comunale di Trento, nell’ottobre-novembre 2007 ha pubblicato su “Trentino Informa”, rivista culturale del Comune di Trento, un racconto in parte fantastico, in parte basato su antichi inventari, sul passaggio da Trento del corteo di Massimiliano d’Asburgo e Maria di Spagna. Titolo: “Suleyman l’elefante: un barrito in Contrada Larga”.
Troppi strapazzi. L’elefante di Goa morì due anni dopo l’arrivo a Vienna, nel dicembre del 1553. Dopo i primi entusiasmi nessuno lo filava più. Non dovette fargli un gran bene sentirsi paragonato al topo dai cronisti locali, in quanto a colore, anche perché, da un altro legittimo punto di vista, sono i topi ad essere dello stesso colore degli elefanti. Forse fu anche male alimentato. Troppi strapazzi per un povero pachiderma, per giunta carico di due nomi così impegnativi. Fu imbalsamato ma la mummia è andata distrutta. Un campione di scheletro sopravvive in un curioso sgabello ricavato da alcune ossa istoriate, che si conserva nel museo del convento di Kremsmünster. Alla notizia della sua morte a Vienna, rimbalzata a Lisbona, la regina di Portogallo singhiozzò a mai finire come il povero re visto da Fo e da Jannacci. Il conduttore Fritz, che fino all’ultimo aveva tenuto compagnia a Solimano, secondo Saramago lasciò Vienna e prese la via di Lisbona. Dove però non arrivò mai. O cambiò idea, commenta l’autore, o morì per strada. Un’intenzionale e magistrale contraddizione tra l’epigrafe immaginaria e la conclusione del romanzo. Segno che, di preferenza, a giungere sempre nel luogo in cui si è attesi sono i piccioni e gli elefanti. Mentre noi, poveri uomini alla ventura, andiamo avanti e indietro per l’universo, quando non ci perdiamo.  

 
     
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