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 Rebora
 
 La sua
                        chiarezza
 in cinque saggi al «Rosmini»
 
 
 «Clemente Rebora e i maestri in ombra»
 è l'ultimo dei Nuovi Quaderni Reboriani.
 È stato presentato al Centro Rosmini di
                        Trento.
 
 
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  Pasolini, al centro del
                        quaderno reboriano presentato al
                        «Rosmini»
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 di Alessandro
                Dell'Aira
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 IL «QUADERNO» contiene otto scritti vecchi e
                nuovi tra cui regna sovrano l'ottavo, pubblicato
                su "Il Punto" nel 1956 e dedicato da
                Pierpaolo Pasolini ai «Canti dell'infermità»
                di Clemente Rebora. Saggio sovrano perché dà il
                la al concerto dei nuovi reboriani (cinque) e
                ispira il titolo del terzo quaderno con
                l'ossimoro lucido e immaginoso - «come dire»,
                premette garbatamente Pasolini quasi a chiedere
                perdono - «dei "maestri in ombra"», i
                vociani che sulla via dell'ermetismo, nel mutare
                di penne dei poeti, rimanevano indietro, al
                margine, nel girone dei sopravvissuti, fuori del
                tempo proprio ma anche e in primo luogo, come si
                amava già dire nel'56, fuori del tempo e della
                storia tout court. Cinque saggi nuovi e
                tre scritti antichi di Gian Carlo Ferretti
                (rielaborato per l'occasione), Piero Jahier e
                Pierpaolo Pasolini, di cui abbiamo detto, con
                ritratti diretti e indiretti di Rebora
                intellettuale laico milanese in gioventù e prete
                rosminiano roveretano in vecchiaia, dal' 45 in
                poi. I saggi nuovi sono di Gualtiero De Santi
                (Una generazione al buio), Giuliano Ladolfi (Son
                l'aratro per solcare), Enrico Grandesso (Varcare
                il silenzio: annotazioni critiche), Franco Lanza
                (Jahier vociano e reboriano), Attilio Bettinzoli
                (Rebora e Campana). Sempre e tutti impegnati, gli
                autori, a collocare Rebora da-a, o tra-e: da
                vocianesimo a rondismo, dall'anonimato
                all'infermità spirituale, tra facce ambigue e
                facce pitturate, tra l'attesa e la vita, tra
                l'etica e l'atto poetico.
 Antidannunziano, senilmente antiletterario nella
                sua religiosità, sedotto ancora dalla parola
                poetica dopo un silenzio di vent'anni, Rebora
                appare a Pasolini come il poeta che ha vegliato
                una notte sola barricato nella vita interiore,
                meditando sul rumoroso dilettantismo di Soffici
                Papini Prezzolini, dominando la lingua e domando
                l'ispirazione. Sulla schiena di Rebora, che amava
                dipingersi come un asino dall'allegro basto e
                dalle nari fruscianti, incombe la stanchezza di
                una malinconia disperata. Siamo nel 1907, lui è
                un poeta creativo e a volte incomprensibile tanto
                che Alfredo Panzini lo supplica di scrivere
                chiaro per farsi capire. Perché non vuol farsi
                capire un giovane poco più che ventenne come
                lui, che ha talento e capacità, perché si
                impunta come un somaro e si ostina bizzarramente
                a fare l'esatto contrario del Carducci, il
                maestro perennemente al sole che vaticina,
                rigurgita e canta ore rotundo? Cosa c'è di più
                bello della chiarezza? Rebora, dicono i suoi
                detrattori, sarà maestro di etica ma come poeta
                non è chiaro, e mai lo sarà, per quella sua
                mania espressionista del voler fare violenza alle
                parole, del transitivizzare contro natura i verbi
                intransitivi, del consapevole pasticciare con i
                sensi, con la semantica e con le figurine della
                retorica. E' schiavo, dicono, come gli altri
                amici suoi, della licantropica mania del voler
                camminare soli al sole per fuggire dalla
                chiarezza compatta del giorno, per cercare
                l'ombra e frantumarla, ovunque, anche nel più
                monolitico dei settenari leopardiani. Colpa o
                certezza? La decadente certezza intellettuale di
                Rebora e dei reboriani consiste nella paziente
                ostinazione del voler cercare e non trovare i
                perché delle cose nei recessi polverosi
                dell'esperienza poetica universale, ripetendo
                "perché", "perché",
                "perché", fino a quando la mente non
                si arrende e l'orecchio abbacinato non avverte il
                mistero del verso nuovo. Dissodare la lingua, il
                lessico e lo stile. Siamo aratri per solcare, ma
                nell'ombra, e sono Boine, Jahier, Rebora e
                Sbarbaro. Voci maestre di quei quindici anni
                difficili.
 
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