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8 settembre 1999 |
Donne,
amori, cavalli.
Byron in
Italia
secondo
Peter Quennel. |
quarantena
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George
Washington Caucamán, un
personaggio di Luis Sepúlveda,
scendendo da un taxi a Santiago
del Cile si chiede se il
paesaggio di una città possa
essere fatto dalle persone. La
stessa domanda dovette porsi Lord
George Gordon Byron a Ravenna nel
1820, pensando a Teresa
Guiccioli, quando scrisse
all'amico Hobhouse che la città
era «terribilmente morale... non
devi guardare la moglie di
nessuno tranne quella del tuo
vicino».
Non c'è autore che non veda in
un paesaggio o in una città
straniera ciò che ritiene più
congeniale alla propria natura.
Il che coincide quasi sempre con
quello che la percezione del
tempo e del luogo suggerisce alle
inclinazioni e al background
dell'Io viaggiante. La prima cosa
che faceva Goethe in una città
che non aveva mai visto era di
salire nel punto più alto alla
ricerca del paesaggio, per
dominarlo con la mente, per
farsene un'impressione e quindi
l'idea. Da parte sua Lord Byron,
dovunque andasse, in qualsiasi
circostanza, si specchiava negli
occhi di una donna. Besoin
d'aimer, di possedere il
paesaggio attraverso le donne. La
sua Italia di gran viaggiatore
con servitori ed animali al
seguito è costellata di donne da
amare, nel senso di possederle.
Perché, noblesse oblige,
poésie oblige, Byron era un
inglese ma in quanto lord e poeta
era ossessionato da quella
irrefrenabile pulsione.
Soprattutto in Italia, e in
Italia soprattutto a Venezia.
Tornando a Ravenna, chi cerca il
Mausoleo di Galla Placidia o le
chiese di San Vitale e di
Sant'Apollinare nel «Don
Giovanni» o nell'Epistolario di
Byron, perde tempo. Conversazioni
estenuanti, interminabili
passeggiate in carrozza, gare di
serventismo: lo scialle della
dama da piegare al dritto e non
al rovescio, svenimenti prevenuti
o agevolati con il Sal Volatile,
cavalcate in pineta rischiando
gli agguati improbabili di un
sicario armato di stiletto,
incontri con i Carbonari sotto la
maschera del cicisbeo della
moglie del conte Guiccioli, nel
suo stesso palazzo. E il padrone
di casa che si dimostra un
perfetto marito di mondo, tanto
da chiedere al poeta una sommetta
in prestito, da invocarne gli
uffici sognando la nomina a
console onorario d'Inghilterra. E
titubando l'inquilino più del
previsto, viste anche le sue
cattive compagnie, Guiccioli
decide di porre fine all'idillio.
Teresa, romantica, obietta che
non intende passare in società
per l'unica moglie di Romagna a
non avere l'Amico. Ferito
nell'amor proprio, implacabile,
il signor conte e console mancato
chiede il divorzio e invoca
l'arbitrato del papa.
E'solo uno
scampolo del saggio che Peter
Quennel ha dedicato a Byron in
Italia. Il suo mestiere di
biografo di rango passa anche per
Shakespeare e Ruskin. In
apparenza la ricostruzione è
aneddotica, ma il vero tessuto è
l'analisi psicologica, fondata
sui documenti ed esauriente
quanto basta. Anche se non c'è
menzione di una confessione di
Schopenhauer, anche lui a Venezia
nel 1818, contenuta in una
lettera richiamata alcuni anni fa
su «La Stampa» da Anacleto
Verrecchia. Il grande filosofo
aveva in tasca una lettera di
presentazione di Goethe per
Byron, ma rinunciò a consegnarla
perché... «passeggiavo con la
mia amata al Lido, quando la mia
Dulcinea, nella più grande
eccitazione, esclamò: Ecco il
poeta inglese! Byron, a cavallo,
mi passò davanti di corsa e la
Donna, per tutto il giorno, non
poté dimenticare
quell'impressione. Allora decisi
di non consegnare la lettera di
Goethe: ebbi paura delle corna».
Luis
Sepúlveda e George Washington
Caucamán non hanno torto. Non
c'è dubbio, lo confermano Byron
e Schopenhauer: il paesaggio, in
città, può anche essere fatto
(e disfatto) dalle persone.
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Peter
Quennel, «Byron in Italia».
Il Mulino, 1999, pp. 232, lire
32.000.
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