Una
dentista, Màlinka, va da uno
psicanalista, il dottor
Salvacuori. Ha problemi con il
cibo, non riesce a ingoiare
niente di solido. L'analisi la
porta a riflettere sui morsi di
un neonato che assaggia il seno
della mamma, aggressivo nel senso
latino di chi si avvicina a
qualcuno o a qualcosa, per
saggiarlo. Màlinka, guidata dal
suo dottore, grazie a lui scopre
di essere la figlia di due
avverbi: suo padre ha quasi settant'anni,
sua madre è morta che ne aveva solo
cinquanta. Chi imbastisce
la storia non è Salvacuori. È
il suo analista supervisore, che
ha l'età del padre di Màlinka
ed è invecchiato bene, senza né
lividi né graffi, forse con
qualche cicatrice nell'anima,
residuo di un'antica ferita. La
quale, come ha fatto notare Aldo
Carotenuto ai suoi apprendisti
stregoni, all'occorrenza è una
feritoia preziosa. La dichiarata
incolumità del supervisore è un
lapsus, o un'aurea finzione, o
una menzogna dettata da ragioni
deontologiche.
Fabrizio Rizzi, trentino doc,
nove lustri suonati,
specializzato in psicologia
immaginativa, psicoterapeuta, ha
costruito con mano volutamente
leggera, in un sapiente e
filtrato gioco di specchi, la
vicenda di Màlinka e del suo
dottore. Il titolo del libro,
«Diario di bordo», allude a una
difficile rotta terapeutica,
percorsa doppiando le isole
epiche dei sogni e affrontando le
tempeste dell'inconscio.
Questa croata pallida,
cliente/paziente del dottor
Salvacuori, è una sorta di
crocierista in ferie che
s'invaghisce di un secondo
ufficiale dalla cresta di gallo?
Una quasi ex bambina perdutamente
innamorata del padre, o solo una
gallina senza cervello? Màlinka
parla e racconta. Oltre che con
Salvacuori, si confida con
un'amica cliente, anche lei
terapeuta, con la scusa di farle
una cura canalare. Delle persone
come Màlinka, che parlano per
raccontare, si dice che parlano
come tiradenti. Ci sono tanti
luoghi comuni sui dentisti e gli
psicanalisti. Per esempio, si
dice che siano tutti dei
tiradenti e degli strizzacervelli
a pagamento. Niente di più
falso, nel nostro caso. I due si
attraggono.
Come spesso succede, Màlinka
decide di interrompere le sedute.
Ha paura di molte cose che porta
dentro. Ma lo strizzacervelli, al
contrario del tiradenti, non cura
a tempo determinato. Al cliente
dà tutto il tempo che vuole, per
potergli aprire l'anima. Così
Màlinka trasforma il lontano in
vicino, il passato in presente e
si rivede a Trieste, dove lei e
la mamma accompagnavano il papà
che partiva, finché una nave del
porto si mangiava il papà. La
mamma portava la figlia a vedere
le partenze del papà, gli arrivi
mai. Quando lui tornava a casa,
per Màlinka non c'era mai tempo:
la mamma si mangiava il papà
come la balena di Pinocchio. È
una pagina del «Diario di
bordo», chiosato dal supervisore
innominato.
Questa storia ha un asse
narrativo intelligente, con colpi
di scena che passiamo sotto
silenzio, e un pregio nascosto,
che riveliamo. Nata quasi per
distrazione, sull'onda di un'idea
rimandata a lungo, solo per caso
è uscita da un cassetto dello
psicoterapeuta trentino ed è
finita sul tavolo di un grande
editore torinese, Bollati
Boringhieri. Un po' come i
messaggi in bottiglia affidati al
mare dai finti naufraghi della
domenica, in crociera perenne, o
come certi bigliettini infilati
sotto il cellophane dei fichi
secchi made in Turkey, dalle
giovani operaie per un ignoto
principe azzurro. Con la forza
dei messaggi d'altri tempi: una
forza negata ai messaggi
elettronici di oggi, che non si
perdono mai, visto che arrivano
quasi sempre, e se non arrivano
tornano indietro.
«Diario di bordo» di
Fabrizio Rizzi è un messaggio di
incerto destino: analogico,
forte, con tanta distanza e
nessuna relazione tra l'emittente
e il ricevente. L'autore è uno
che quando si sveglia trova le
ragioni del giorno prima a terra
con i vestiti. La sua autonomia,
riprendiamo due versi dal diario
del dottor Salvacuori, è quella
di una graffito sulla parete di
un'antica caverna, di un
messaggio nella bottiglia in
questo oceano di misteri.
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