22 agosto 2003
Pessoa, Soriano
e la Coca-Cola


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quarantena

Verso la fine degli anni Venti del secolo scorso la ditta Moitinho de Almeida di Lisbona, in affari con gli Stati Uniti, aveva l'esclusiva per il Portogallo di una bevanda frizzante, deliziosa, rinfrescante, confezionata in bottiglie di forma inconsueta, con un'etichetta bianca e rossa come la bandiera a stelle e strisce. Il nome del prodotto era scritto a mano con gli svolazzi, stile registro contabile. La formula era segreta, il nome esotico e trasgressivo: Coca-Cola. Gli americani ne andavano pazzi, si era in pieno proibizionismo e quella gazosa dolciastra color carruba poteva aiutare gli alcolisti a redimersi. Le proposte della concorrenza non erano all'altezza.

Il signor Fernando Pessoa, intellettuale squattrinato di Lisbona, occhiali tondi e spolverino grigio, traduttore di lettere commerciali per la ditta Moitinho de Almeida, stravedeva per la radio, i futuristi e la rèclame. Pensò che un lampo di genio avrebbe moltiplicato le vendite in Portogallo di quella bibita dal nome equivoco, con effetti a cascata sul suo stipendio. Ci voleva uno slogan traumatico, effervescente. Ne inventò uno di gran forza: Primeiro entranhase, depois estranhase, prima ti entra nelle viscere e poi ti esce da tutti i pori. Impeccabile. Geniale. Più la butti giù e più ti tira su.

Ogni cosa a tempo e luogo, però. Se uno slogan così oggi esalta le nostre miscele di caffè per famiglie, da gustare all'inferno o in paradiso come proiezioni estreme del paradosso consumistico, la bella frase di mano del signor Fernando Pessoa, che promuoveva il lancio della Coca-Cola in Portogallo, virò su se stessa e tornò indietro come un boomerang. Il professor Salazar era al governo da poco e quell'intruglio lambiccato in Georgia da un farmacista fallito avrebbe fatto i conti con lui, come tante altre cose che non gli piacevano. Dentro poteva esserci cocaina. Ammesso pure che non fosse tossica, eccitava certamente i centri nervosi. Il Ministero della Salute portoghese requisì l'intero stock e ne vietò la vendita nel paese con un decreto che durò quarant'anni. L'ideatore dello slogan rischiò di essere licenziato a causa della Coca-Cola. Altro che portarsela a scuola, come Vasco Rossi. Ma al signor Pessoa non poteva importargliene di meno. Lui frequentava le latterie di periferia e le mescite di buon vino del centro di Lisbona.

Questo aneddoto, rivelato a un quotidiano portoghese nel 1992 da un esponente della famiglia Moitinho de Almeida, ripreso dai più recenti biografi di Fernando Pessoa, non è contenuto nel saggio "La Coca-Cola è così", di Osvaldo Soriano, inserito da Einaudi in una raccolta di testi brevi: "Ribelli, sognatori e fuggitivi", riproposta l'anno scorso nella collana "Stile libero". Il sognatore in questo caso è John Pemberton, l'oscuro farmacista che in punto di morte, nel 1891, non volendo portarsi all'altro mondo la formula decise di cederla in cambio di 550 dollari. Un pessimo affare: chissà che bevute di Coca-Cola lo aspettavano in paradiso (o all'inferno) se si fosse tenuto il segreto. Più la butti giù e più ti tira su, avrebbe trovato bello anche l'ultimo viaggio.

Il corrosivo Osvaldo Soriano era un entusiasta della Coca Cola, che definì "dolce prodotto dell'imperialismo, identico a se stesso in ogni parte del mondo". Ne rivelò la composizione riprendendola da "Test-Achats", rivista belga che l'aveva divulgata nel 1979. L'analisi di un litro avrebbe dato questo responso: acida, equivalente a un caffè, zuccherata, colorata, non più dannosa di altre bibite in commercio.

Eppure si dice che la chiave della vera formula resista, custodita da tre persone che vivono in città diverse degli Stati Uniti e non si incontrano mai. Il mistero ci sembra irrilevante. Senza la bottiglia, senza il profilo della bottiglia sulla lattina, senza il logo Old America, senza quest'ultima leggenda metropolitana, la Coca-Cola tornerebbe gazosa, perderebbe l'appeal, non avrebbe gusto, non sarebbe più country.






















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