Luchino
Visconti, che fiutava gattopardi
dovunque, affittò Palazzo Viti per
girarvi “Vaghe stelle
dell’Orsa”. Oggi la famiglia
gestisce in proprio il Museo e il
Palazzo, che abita in parte. Sul portone
e sotto le statue dello scalone decorato
a finto marmo, un avviso per il pubblico:
“Il Palazzo è ancora aperto
nonostante l’Amministrazione
comunale di Volterra”. L’ultimo
dei Viti tiene duro e non molla, sa di
avere tra le mani un Perù. Frequenta le
aste d’antiquariato e rimpingua la
collezione. I candelabri rimasti sullo
stomaco al suo avo gli hanno insegnato
che se un affare è andato male, non è
detto che gli altri vadano peggio.
Le avventure di Giuseppe Viti,
viaggiatore e mercante volterrano,
ricordano quelle degli ambulanti del
Tesino, i Daziaro, spintisi a piedi nella
Russia degli zar con le stampe dei
Remondini nelle cassette di legno e poi
titolari di grandi negozi a Pietroburgo,
Mosca e Varsavia. Con una differenza, non
proprio leggera: il campionario di Viti
si gestiva meno facilmente delle stampe
bassanesi. Nella sala da pranzo del
Palazzo, accanto a due quadri con il
tempio del Sole di Cuzco e la piazza
principale di Quito, ce n’è un
terzo che raffigura Giuseppe Viti mentre
valica le Ande con le sue casse di
pietre.
Il Museo è interattivo, e non nel senso
che oggi intendiamo. Di tanto in tanto
chi vi entra ha una folgorazione e svela
al proprietario la vera funzione di un
pezzo esposto. Per esempio, un turista di
passaggio ha chiarito come una calotta di
metallo dorato, più sonora di un
diapason a passarle un dito sul bordo,
sia una copia della ciotola di Buddha,
oggetto usato dai monaci tibetani e
nepalesi per elemosinare il cibo. Lo
stesso è accaduto con il ritratto
arcigno di un militare, esposto nel
salotto rosso: una signora
latinoamericana vi ha riconosciuto il
maresciallo Andrés de Santa Cruz,
presidente della repubblica di Bolivia
dal 1829 al 1839 e fautore della
confederazione boliviano-peruviana. Il
giorno dopo il signor Viti junior ha
rimosso la cornice del quadro e ha
scoperto una sontuosa dedica del Santa
Cruz, rilasciata al suo antenato in
occasione dell’acquisto di preziosi
alabastri, pagati con una cambiale.
Com’era prevedibile, in Europa
nessuno volle accettarla. Il signor Viti
non si scompose e alla prima occasione la
barattò con una partita di cristalli di
Boemia. Meglio perdere che straperdere,
sembra commentare il suo ritratto nel
salotto rosso. Viti non è abbigliato da
emiro del Nepal ma da florido industriale
del suo tempo. Una specchiera
d’epoca lo divide dal presidente
Andrés de Santa Cruz, con par condicio
perfetta.
I due candelabri presidiano il salone da
ballo di Palazzo Viti. Sugli angoli, per
prudenza: piazzati al centro del
pavimento di alabastro indurito, lo
sfonderebbero. Sono un ibrido tra la
visione nostrana dell’arte di
Montezuma e i lampadari di vetro di
Murano. Giosuè Carducci li avrebbe detti
“fatali” come la Novara, la
fregata a vela della Österreichische
Kriegsmarine su cui l’arciduca
lasciò Miramare per sempre. Dentro i
loro bulbi diafani, a Città del Messico,
i suoi camerieri avrebbero acceso ogni
sera le luci a petrolio. Tra i motivi
decorativi dello stelo c’è una
probabile allusione all’ananas,
emblema prediletto da Massimiliano e
Carlotta come auspicio di fertilità e
opulenza. Un motivo che oggi, a Volterra,
sopravvive come il residuo pietrificato
di un sogno.
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